Come legittimare uno sgombero. Radio Tre, Internazionale, La Repubblica raccontano l’Ex Moi a Torino

(disegno di escif)

L’inverno è stata stagione di sgomberi alle palazzine dell’Ex Moi. Dopo lo svuotamento forzato degli scantinati a fine anno, le forze dell’ordine hanno intimato agli abitanti di uscire dalla palazzina blu. Era l’inizio di marzo: più di cento rifugiati sono saliti sui bus e gli ingressi sono stati murati. Le modalità dello sgombero e le alternative promesse – soluzioni abitative e contratti di lavoro a breve termine – sono state gestite dal progetto “MOI – Migranti un’Opportunità d’Inclusione”, governato da Compagnia di San Paolo con la collaborazione di Città di Torino, Regione Piemonte, Diocesi e Prefettura.

Il piano di Compagnia di San Paolo non era iniziato con i migliori auspici. Nel 2017 gli occupanti avevano respinto l’ipotesi di un trasferimento: uno striscione pendeva dalla palazzina blu: “No al progetto fregatura”; proteste accese avevano costretto il project manager e i suoi collaboratori ad abbandonare l’ufficio aperto al piano terra. Vari sono stati gli argomenti che hanno indebolito la dissidenza: quattro ragazzi hanno trascorso un anno in carcere, all’alba la polizia si è presentata in assetto antisommossa e camionette, agenti dialoganti hanno rotto il fronte della protesta avanzando offerte irrinunciabili.

Eppure la forza non è l’unico strumento d’ordine; anche il linguaggio ha un potere che smussa e appiana i contrasti. “Sgombero dolce”, “opportunità di inclusione”, “liberazione delle palazzine” sono espressioni plasmate da istituzioni governanti. Questa lingua – modulata da articoli di giornale, comunicati stampa, interviste delle autorità – s’oppone ai toni dei partiti di destra e dei comitati di quartiere razzisti, ma di fatto legittima lo sgombero colorandolo di buon senso, disponibilità al dialogo e apertura al negoziato. Parole benevolenti ma superficiali, attente alle condizioni dei marginali eppure ambigue, politicamente corrette ma scivolose, che contribuiscono a scancellare le resistenze, dimenticare i punti oscuri, scartare le domande che dolgono. Per mostrare come funziona questo congegno, porto come esempio l’analisi di tre lavori – due reportage e un articolo – usciti nell’ultimo mese su Radio 3InternazionaleLa Repubblica.

Su Radio 3 il 20 e il 21 maggio è stato trasmesso in due puntate il reportage “Benvenuti al Moi. Voci di migranti dall’ex villaggio olimpico occupato a Torino”. Alcuni occupanti raccontano in italiano e in inglese le torture in Libia, il viaggio in mare, la consunzione delle palazzine («Non c’è il riscaldamento, toilette is bad»); raccontano la vita alla giornata e il lavoro perso. Le testimonianze straniere sono alternate alle voci italiane del quartiere: una donna menziona il “degrado” e la spazzatura, lamenta che «la sera non usciamo più perché abbiamo paura» e che alcuni «li vedi con lo smartphone a ciondolare»; ma un’altra voce, sempre femminile, ricorda la madre giunta a Torino dalla Sicilia e traccia un’analogia solidale tra immigrati di ieri e di oggi. Il reportage appare variegato ed equilibrato, appena scolastico, ma è solo un effetto del montaggio. Il filo principale del racconto è intessuto dalla voce di un operatore organico al progetto di Compagnia di San Paolo. L’uomo racconta del vecchio mercato ortofrutticolo e della costruzione delle palazzine al tempo delle Olimpiadi, ricorda la dismissione e l’occupazione del 2013 e infine spiega perché le procedure di sgombero (“trasferimento”, per lui) siano legittime: «Il progetto vede il suo inizio dall’aprile 2017. L’acronimo MOI (Mercato ortofrutticolo all’ingrosso) diventa Migranti un’opportunità di inclusione. È un progetto che vuole risolvere la situazione di occupazione e dare delle alternative alle persone che occupano, sia dal punto di vista lavorativo che abitativo». Il racconto non rammenta le proteste e le rivolte, né menziona le modalità e la durata delle “alternative”. Soprattutto il reportage non evidenzia l’aporia vissuta dagli occupanti, schiacciati tra una vita (sempre più precaria) di disagi in palazzine fatiscenti e nuove soluzioni abitative senza orizzonti a lungo termine. Continua l’operatore: «Successivamente incominciamo a liberare i primi spazi, il primo spazio a essere liberato è quello degli interrati». “Liberare” è lo stesso verbo impiegato da Chiara Appendino dopo un vertice sull’Ex Moi tenuto al Viminale con il ministro Salvini.

Un articolo del 15 aprile di Internazionale descrive il progetto meritorio che Medici senza frontiere ha realizzato presso l’occupazione dell’Ex Moi. L’autrice ricorda che “sono numerose le barriere che ostacolano o impediscono l’accesso ai servizi sanitari territoriali [da parte degli abitanti di insediamenti informali]” e per questo MSF ha avviato dal 2016 un programma di orientamento ai servizi sanitari pubblici all’Ex Moi. Grazie a questo intervento sono state assistite più di quattrocento persone residenti nelle palazzine. Il titolo del breve reportage suona rassicurante: “Un progetto d’inclusione per i migranti all’Ex Moi di Torino”. L’assonanza con il progetto d’inclusione di Compagnia di San Paolo, certo, può essere un caso. Eppure si legge nel corpo del testo: “Nel 2017 – mentre in altre aree del paese si procedeva a sgomberi indiscriminati degli stabili occupati da immigrati e rifugiati come nel caso del palazzo occupato di piazza Indipendenza a Roma – a Torino si provava a mettere in piedi un progetto pilota per superare l’occupazione dell’ex Moi”. Ecco un lieve slittamento: senza ragioni apparenti il discorso scivola dal presidio medico al programma di sgombero. Secondo l’autrice non si tratta di “sgomberare” il Moi, ma di “superarlo” utilizzando modalità diverse dagli “sgomberi indiscriminati” avvenuti altrove. Tuttavia l’autrice dimentica i moti di protesta contro il progetto e il carcere preventivo di un anno per i quattro ragazzi accusati di resistenza a pubblico ufficiale, minacce e lesioni. E l’articolo omette una ricerca approfondita sulle modalità impiegate dalle forze dell’ordine per “superare” l’occupazione. Durante la lettura sappiamo soltanto che “nell’ambito di questo progetto sono state chiuse due palazzine, mentre il comune ha annunciato che il piano dovrebbe concludersi entro la fine del 2019”. Nella conclusione l’autrice richiama il progetto di MSF: “Per Medici senza frontiere e le altre organizzazioni che hanno lavorato al progetto, l’esempio dell’Ex Moi potrebbe rappresentare un modello da replicare anche negli altri insediamenti informali in tutta Italia”. Perché un medesimo termine – “progetto” – denota due interventi differenti? Grazie a questo slittamento semantico, lo sgombero degli occupanti si confonde con il lavoro necessario dei medici: così il secondo progetto legittima il primo. Lo stesso giorno della pubblicazione si è tenuta in città, presso il Circolo della Stampa, una presentazione del progetto di Medici senza frontiere. Tra i relatori spiccavano la presidente dell’organizzazione umanitaria e l’assessore Schellino, la regista istituzionale dello sgombero.

Il 19 maggio, infine, la pagina cittadina di Repubblica informava che uno sfortunato “gattino” era imprigionato negli scantinati dell’Ex Moi. L’animale non poteva essere liberato perché le cantine sono sotto sequestro in seguito allo sgombero e i sigilli non possono essere rimossi. Per fortuna, scrive la giornalista, “è stata trovata una soluzione tecnica” e i vigili del fuoco hanno rimosso una grata per salvare il gatto imprigionato. Il giornale allega un video dove compaiono i vigli del fuoco issare dai bassifondi una gabbia con il superstite. A ridosso delle grate attende il sindaco Appendino, raggiante per il salvataggio. “Eccolo!”, esclama, poi applaude ed esulta: “Bravi!”. Seguono le foto di rito. Anche un articolo insulso può nutrire la propaganda, espandere l’oblio sui conflitti sociali e sorvolare sulle carenze di governanti che mai, in questi anni, hanno visitato il cortile delle palazzine se non in occasione d’un salvataggio felino.

I lavori qui citati non si soffermano sul paradosso di palazzine costruite per atleti olimpionici poi abbandonate alla fine dei giochi, non ragionano sulla proprietà degli immobili (appartenenti a un fondo in difficoltà economiche controllato da soggetti privati e dalla stessa Città), non evocano nemmeno i sogni di riqualificazione delle arcate vicine. Pregni di buoni sentimenti, e superficiali, questi articoli e reportage finiscono per legittimare le operazioni di governo sul quartiere. È inutile esplorare, qui, la labile frontiera tra l’innocente incoscienza e la scaltrezza di chi scrive e compone: forse le parole non hanno autori, ma sono emissioni automatiche della lingua che domina. Piuttosto bisogna mostrare come la verità sia ancora un effetto del discorso, e la critica uno smontaggio empio della finzione. (francesco migliaccio)